Prospettive

Shifting Baseline

Termine non facilmente traducibile In italiano. Il tentativo migliore nel suo complesso e che abbia un minimo di fedeltà all’originale potrebbe essere quello che rimanda all’idea di “alzare l’asticella”. Anche se l’asticella che si alza ha a che fare con il misurarsi con difficoltà sempre più grandi, spostare un po’ più in alto (o in avanti, se siamo disposti a patteggiare sulla spazialità stretta), il confine dei propri limiti. 

Utilizzato per la prima volta nel 1969 da Ian Mc Harg nel suo manifesto di architettura paesaggistica Design With Nature ai fini di un confronto di paesaggi di epoche diverse, il termine venne ripreso nel 2002 dal regista e prima ancora biologo marino Randy Olson in un suo editoriale sul Los Angeles Times, in cui ne ampliava la definizione ponendolo in relazione a tutti gli aspetti del cambiamento ambientale e alla simultanea incapacità individuale e collettiva di percepirlo. Olson scriveva il suo editoriale nel 2002 e si riferiva al suo mondo di allora, praticamente un’era geologica fa; un anno dopo Olson e l’ecologo della barriera corallina Jeremy Jackson hanno co-fondato The Shifting Baselines Ocean Media Project per aiutare a promuovere una più ampia comprensione e uso del concetto nella politica di conservazione. Ma se il grado di sensibilizzazione dei media è cresciuto molto negli ultimi 20 anni, non possiamo dire lo stesso dei risultati ottenuti in termini di salvaguardia dell’ambiente.

Una shifting baseline è una linea mobile con cui un sistema viene misurato, o meglio, con cui viene misurata la sua mutazione rispetto ai precedenti punti di riferimento. L’adattamento da parte di uno o più organismi a un sistema che muta. Ed è forse questo il referente più prossimo e fedele al concetto, il cambiamento e il modo in cui esso viene osservato. La conservazione e la sopravvivenza delle specie si fonda anche su questo, sull’adattamento a sistemi e ambienti che mutano. Ma fino a che punto il sistema può accettare lo spostamento incondizionato di questa linea? Dove si trova quel punto in cui si interrompe persino la percezione del cambiamento e finiamo per accettare tutto passivamente? Quando viene a mancare l’osservazione oggettiva di quanto sta accadendo e falliamo nel riconoscere il cambiamento, accettando tutto semplicemente come una nuova realtà oggettiva e aggiuntiva, non siamo più di fronte a una politica di conservazione ma a un grave caso di amnesia planetaria. 

In parole povere, se quando eri piccolo andavi a sciare con la neve che ti arrivava alle ginocchia mentre adesso scii con 20 gradi a gennaio su un budello di neve artificiale in mezzo a vallate fiorite, ma continui comunque ad andare a sciare perché tecnicamente è ancora possibile, ecco che senza saperlo hai spostato la tua linea di misurazione della realtà sempre più avanti, senza riconoscere che la realtà, che pure vedi diversa, sia frutto di un cambiamento, ma semplicemente limitandoti ad accettare quella nuova realtà e adattandoti ad essa, dando importanza marginale alla gravità della situazione. Lì non si scia? Andiamo più in alto. Il ghiacciaio a 3.000 metri si scoglie? A 4.000 ce ne sono ancora. Le temperature si innalzano? Compriamo più costumi da bagno. La costa si erode? Allontaniamoci e costruiamo più nell’interno. Venezia affonda? Mettiamoci soltanto 50 anni a costruire il Mose e nel frattempo ammazziamola di grandi navi e moto ondoso. E così via. Ma attenzione, se la situazione ambientale è grave, quella sociale non lo è meno. L’essere umano è una creatura straordinaria, si adatta praticamente a tutto, anche al continuo ribasso e ne abbiamo avuto le prove nell’ultimo anno più che in qualsiasi altro periodo della nostra storia recente. La pandemia ci ha insegnato molte cose, una di queste è che possiamo convivere bene con limitazioni di libertà importanti, che siamo disposti ad accettare di stare lontani dai nostri affetti, che dopo tutto non è un dramma indossare una mascherina e andare in giro, per quel poco che possiamo, con facce tutte uguali guardandoci negli occhi l’un l’altro, mentre ci passiamo accanto, con sguardi per metà curiosi e per l’altra metà compassionevoli. Come dicevo, ci adattiamo a tutto, al ghiacciaio che si scioglie, all’innalzamento delle temperature, al mare di plastica e prendiamo tutto sommato sportivamente anche una pandemia. L’impressione è che quella linea di demarcazione sia ormai un aereo che vola a velocità supersonica e che noi, piloti inadatti e adattati, non possiamo far altro che affidare il cruise control al pilota automatico. L’adattamento è accettabile purché temporaneo e purché non tenda all’estremo ribasso e, soprattutto, che sia accompagnato a uno sguardo dritto e teso verso la costruzione di un futuro, migliore se possibile.